
Dal 5 ottobre 2008 all’11 gennaio 2009 il Museo d’Arte della
Città di Lugano ospita una mostra sulla fotografia del ventesimo secolo
nella quale sono presentate al pubblico opere originali dei grandi fotografi
internazionali, provenienti da una collezione privata.
La mostra, intitolata Photo20esimo, occupa i tre piani di Villa Malpensata,
e si articola in otto sezioni i cui confini, come appare chiaro al
visitatore, sono agili e interscambiabili: è il confronto con le opere a
offrire il maggior stimolo di libera associazione.
Dalle Avanguardie storiche alla moda, dal reportage sociale al cinema, dalla
natura morta alla pubblicità, dal ritratto allo studio del nudo, numerose
sono le influenze reciproche tra questi ambiti di ricerca ed espressione dei
più grandi fotografi del Novecento.
La fotografia, nata a metà del diciannovesimo secolo, nel ventesimo secolo
diventa una delle discipline protagoniste non solo delle arti visive bensì
di tutta la cosiddetta “civiltà delle immagini”, testimoniandone le
trasformazioni culturali. La fotografia dunque, costituendo per lungo tempo
un’imprescindibile fonte di informazione, occupando ogni strumento di essa,
si apre progressivamente a indagini più profonde sui significati ultimi dei
mutamenti in atto, diventando a pieno titolo, con una consapevolezza e
concretezza che le è propria, ricerca artistica tout court.
Photo20esimo, con un’accurata scelta critica, offre un caleidoscopio di
esempi significativi divenuti fortemente emblematici capace di stimolare il
pubblico a vari livelli.
Tra le quasi trecento opere sono presenti stampe di Diane Arbus, Richard
Avedon, Gabriele Basilico, Brassaï, Robert Capa, Robert Doisneau, Walker
Evans, Robert Frank, Mario Giacomelli, Nan Goldin, Mimmo Jodice, László
Moholy-Nagy Helmut Newton, Robert Mapplethorpe, Irving Penn, Man Ray,
Bettina Rheims, Alexander Rodchenko, Thomas Ruff, Andres Serrano, Cindy
Sherman, Edward Steichen e altri.
Accanto all’importante repertorio di opere che provengono da collezioni
private sono esposti in mostra anche alcuni apparecchi fotografici
appartenuti a protagonisti della fotografia quali Manuel Alvarez Bravo,
Luigi Ghirri, Ugo Mulas e altri, nonché libri fotografici d’autore che
costituiscono un capitolo importante della storia delle immagini e della
cultura.
Per la circostanza è edito da Silvana Editoriale un catalogo bilingue che
raccoglie saggi e contributi di Marco Antonetto, Bruno Corà (curatori della
mostra), Daniela Palazzoli, Heinz Liesbrock e altri autori.
Artisti in mostra
Berenice Abbott (1898-1992)
Paola Agosti (1947)
Manuel Alvarez Bravo (1902-2002)
Nobuyoshi Araki (1940)
Diane Arbus (1923-1971)
Richard Avedon (1923-2004)
Roberto Baccarini, Angelo Porta
David Bailey (1938)
Gianpaolo Barbieri (1940)
Olivo Barbieri (1954)
Gabriele Basilico (1944)
Herbert Bayer(1900-1985)
Irene Bayer (1898-1991)
Peter Beard (1938)
Cecil Beaton (1904-1980)
Manfredi Bellati (1932)
Gianni Berengo Gardin (1930)
Werner Bischof (1916-1954)
Erwin Blumenfeld (1897-1969)
Achille Bologna (1888-1958)
Gino Bolognini (1908-1994)
Mario Bonzuan (1904-1982)
Alexander Borodulin (1952)
Margaret Bourke-White (1904-1971)
Arturo Bragaglia (Studio Bragaglia) (1894-1960)
Bill Brandt (1904-1983)
Brassaï (Gyula Halász) (1899-1984)
Josef Breitenbach (1896-1984)
Anton Bruhel (1900-1982)
René Burri (1933)
William Burroughs (1914-1997)
Jo Ann Callis (1940)
Robert Capa (Endre Friedmann) (1913-1954)
Lisetta Carmi (1924)
Giuseppe Cavalli (1904-1961)
Giovanni Chiaramonte (1948)
Hilda Cieluszek
Karl Cieluszek
Mauro Cinquetti (1949)
Paul Citroen (1896-1983)
Bob Carlos Clarke (1950-2006)
Lucien Clergue (1934)
Mario Cresci (1942)
Imogen Cunningham (1883-1976)
Judy Dater (1941)
Mario De Biasi (1923)
Patrick Demarchelier (1944)
Raymond Depardon (1942)
Robert Doisneau (1912-1994)
Mario Dondero (1929)
Pietro Donzelli (1915-1998)
Max Dupain (1911-1992)
William Eggleston (1939)
Siegfried Enkelmann (1905-1978)
Walker Evans (1903-1975)
Frederick Henry Evans (1853-1943)
John Everard
Andreas Feininger (1906-1999)
Lux Feininger (1910)
Larry Fink (1941)
Franco Fontana (1933)
Joan Fontcuberta (1955)
Vittore Fossati (1954)
Robert Frank (1924)
Lee Friedlander (1934)
Flor Garduño (1957)
Caio Garruba (1923)
Giovanni Gastel (1955)
Luigi Ghirri (1943-1992)
Mario Giacomelli (1925-2000)
Ralph Gibson (1939)
Paolo Gioli (1942)
Nan Goldin (1953)
Emmet Gowin (1941)
Milton Greene (1922-1985)
Franco Grignani (1908-1999)
Jan Groover (1943)
Ernst Haas (1921-1986)
Heinz Hajek-Halke (1898-1983)
Philippe Halsman (1906-1979)
Robert S. Harrah
Sam Haskins (1926)
Florence Henri (1893-1982)
Horst P. Horst (Horst Paul Albert Bohrmann) (1906-1999)
Frank Horvat (1928)
Eikoh Hosoe (1933)
Georges Hurrell (1904-1992)
Lotte Johanna Jacobi (1896-1990)
Mimmo Jodice (1934)
Alfred Cheney Johnston (1885-1971)
Colleen F. Kenyon (1951)
André Kertész (1894-1985)
Willy Kessels (1889-1974)
Edmund Kesting (1892-1970)
William Klein (1928)
Fred G. Kort (1902-1983)
Leslie Robert Krims (1943)
Karl Lagerfeld (1933)
Jacques-Henri Lartigue (1894-1986)
Franz Lazi (1922-1998)
Jorge Lewinsky (1921-2008)
Herbert List (1903-1975)
Heinz Loew (1903-1981)
Elio Luxardo (1908-1969)
Man Ray (Emmanuel Rudnitsky) (1890-1976)
Robert Mapplethorpe (1946-1989)
Fosco Maraini (1912-2004)
Linda Mc Cartney (1941-1998)
Don McCullin (1935)
Raymond Meier (1957)
Steven Meisel (1954)
Pietro Francesco Mele
Sheila Metzner (1939)
Joel Meyerowitz (1938)
Duane Michals (1932)
László Moholy-Nagy (1895-1946)
Carlo Mollino (1905-1973)
Barbara Morgan (1900-1992)
Ugo Mulas (1928-1973)
Arnold Newman (1918-2006)
Helmut Newton (1920-2004)
Arrigo Orsi (1897-1967)
Paul Outerbridge (1896-1958)
Norman Parkinson (1913-1990)
Giulio Parmiani (1918-1960)
Lionel Pasquon (1947)
Federico Patellani (1911-1977)
Irving Penn (1917)
John Pfahl (1939)
James Pickerell
Pierluigi (Pierluigi Praturlon) (1924-1999)
Edward Quigley (1898-1977)
Robert Rauschenberg (1925-2008)
Albert Renger-Patzsch (1897-1966)
Emery Reves-Biro (1895-1975)
Bettina Rheims (1952)
Hans Richter (1888-1976)
Herb Ritts (1952-2002)
Aleksandr Rodchenko (1891-1956)
Fulvio Roiter (1926)
Arthur Rothstein (1915-1985)
Franco Rubartelli (1937)
Thomas Ruff (1958)
Xanti (Alexander) Schawinsky (1904-1979)
Herbert Schürmann (1908-1982)
Ferdinando Scianna (1943)
Tazio Secchiaroli (1925-1998)
Ettore Secco d'Aragona
Andrés Serrano (1950)
Cindy Sherman (1954)
Kishin Shinoyama (1940)
Jeanloup Sieff (1933-2000)
Aaron Siskind (1903-1991)
Keith Smith (1938)
Eugene William Smith (1918-1978)
Anton Stankowski (1906-1998)
Edward Steichen (1879-1973)
Otto Steinert (1915-1978)
Bert Stern (1929)
Karl Straub (1900-?)
Thomas Struth (1954)
Oliviero Toscani (1942)
Max Vadukul (1961)
Federico Vender (1901-1999)
Luigi Veronesi (1908-1998)
Roman Vishniac (1897-1990)
Wilhelm Von Gloeden (1856-1931)
Chris Von Wagenheim (1941-1982)
Weegee (Arthur Felling) (1899-1968)
Brett Weston (1911-1993)
Edward Weston (1886-1958)
Minor White (1908-1976)
Garry Winogrand (1928-1984)
Francesca Woodman (1958-1981)
Steef Zoetmulder (1911)

Tematiche:
Astrazione
Maria Francesca Bonetti
“Astrazione”, quale tipologia formale intesa in senso lato, e diversamente
associata a momenti ed elaborazioni tra loro anche molto distanti –
culturalmente, concettualmente e non soltanto cronologicamente –, è la
chiave di lettura e il riferimento visivo essenziale per questa sezione
della mostra e della collezione, nella quale sono poste in primo piano le
ricerche compositive e le esperienze non figurative che la fotografia,
soprattutto a carattere sperimentale, ha messo in atto nel corso del
Novecento. A dispetto della sua primordiale funzione, sempre poi
simbioticamente e ambiguamente confusa con la sua pretesa natura di medium
destinato e votato alla riproduzione analogica e alla rappresentazione
naturalistica e oggettiva del mondo, è proprio nell’allontanamento dalla
realtà esteriore delle cose e, paradossalmente, nella rinuncia consapevole
alla denotazione delle immaginidocumento, che la fotografia riconosce, svela
ed esalta le sue specificità linguistiche, superando l’antico pesante
pregiudizio della sua meccanicità e aprendosi definitivamente la strada tra
le altre diverse arti.
Attraverso tutta una serie di pratiche non convenzionali, che contrastano la
tradizionale attitudine mimetica della fotografia – quali fotogrammi,
fotomontaggi, solarizzazioni, sovrimpressioni, esposizioni multiple,
aberrazioni prospettiche e deformazioni – attuate all’inizio principalmente
in seno alle avanguardie (futurismo, dadaismo, costruttivismo, surrealismo
ecc.) e sperimentate poi nei vari ambiti della fotografia amatoriale e
professionale, l’attenzione si sposta dal referente al segno, dagli oggetti
che si offrono allo sguardo agli elementi costitutivi del linguaggio (la
superficie sensibile, la luce, la mediazione minimale degli oggetti) e alle
figure retoriche della sua sintassi (metafora, metonimia, sineddoche,
iperbole, antitesi ecc.).
Se l’approccio espressivo, non meramente documentativo, è riconoscibile e
presente nella fotografia anche nei periodi precedenti (si pensi in
particolare alle declinazioni pittorialiste), è soprattutto a partire dagli
anni venti – parallelamente alla crisi della forma naturalistica che segna
le diverse scuole e i movimenti artistici europei – che essa va definendo
autonomamente la propria estetica; e proprio grazie alle applicazioni, alle
speculazioni e alle incursioni degli artisti, che ne fecero libero uso, in
quanto strumento tecnico in grado di cogliere più efficacemente gli aspetti
della modernità e di rinnovare il linguaggio visivo secondo la nuova
percezione dello spazio e del tempo che la civiltà industriale e il
dinamismo della metropoli elettrificata avevano prodotto.
Laszlo Moholy-Nagy, artista insegnante al Bauhaus, indica programmaticamente
il nuovo corso della fotografia: il suo Malerei, Fotographie, Film,
pubblicato nel 1925 nella collana dei “Bauhausbücher”, costituirà il
riferimento essenziale per tutta l’avanguardia fotografica europea e dà
legittimazione teorica a quella nuova visione che si voleva libera e non più
condizionata dalle leggi e dalle suggestioni della precedente tradizione
pittorica. Attribuendo all’ottica un valore conoscitivo, e trovando nella
fotografia scientifica (micro e macrofotografie, radiografie, vedute aeree,
immagini astronomiche ecc.), come anche nelle ludiche distorsioni e negli
“errori” di certe immagini amatoriali, un nuovo e inedito repertorio di
forme, Moholy-Nagy fonda la sua nuova estetica, non più basata su una teoria
della bellezza, ma su una teoria dell’immagine e sul valore pedagogico della
percezione visiva.
La sperimentazione, a cominciare dalle immagini ottenute senza l’uso della
camera (i fotogrammi, che hanno il loro precedente storico nei disegni
fotogenici di Talbot), è una costante nella storia della fotografia,
costituisce il fondamento stesso delle invenzioni dei procedimenti
fotografici, tuttavia risponde – nei suoi momenti più alti – a quelle spinte
espressive e a quelle urgenze creative che caratterizzano gli aspetti più
soggettivi e più anarchici delle singole individualità, conducendole oltre
le regole, le abitudini e la logica della documentazione e dei generi
rappresentativi, a favore invece di una ricerca personale, basata su
intuizioni, estremizzazioni, astrazioni e concettualizzazioni che spesso
coincidono, o comunque dialogano e si confrontano con le altre coeve
pratiche artistiche.
Accanto alle immagini geometrico-astratte o “smaterializzate”, provocate
semplicemente dagli automatismi della luce, di alcuni maestri e allievi del
Bauhaus (Moholy-Nagy, Stankowski, Schawinsky, Loew, Lux Feininger,
Schürmann, Cieluszek), quelle analoghe di altri fotografi, coinvolti nella
cultura artistica internazionale delle avanguardie, che praticarono la
fotografia sperimentale con diverse finalità (Quigley e Kort, Veronesi e
Grignani). Accanto a immagini costruite attraverso manipolazioni e
interventi sui materiali e sugli strumenti, di altri significativi
rappresentanti delle tendenze moderniste (Hans Richter, Barbara Morgan,
Florence Henri e Heinz Hajek-Halke, Max Dupain), alcune prove di segno
opposto, nelle quali l’avvicinamento, l’ingrandimento, la semplice
decontestualizzazione degli oggetti o le arditezze prospettiche, operano,
nonostante l’utilizzo di procedimenti “puri”, una sorta di astrazione delle
porzioni di realtà fotografata (Willy Kessels, Margaret Bourke-White). A
risultati d’astrazione vicini all’informale, perseguiti attraverso nuove
forme e procedure creative nell’ambito di una ricerca volta all’affermazione
della propria interiorità e soggettività, tipica del periodo post-bellico,
giungono poi altri protagonisti della fotografia del dopoguerra, che hanno
assorbito in particolare la lezione del surrealismo (Otto Steinert, Aaron
Siskind e Brett Weston, come anche gli italiani Fulvio Roiter, Mario De
Biasi e Mario Bonzuan). Composizioni astratte, ancora, come ricerche sulla
materia e sulla storia della fotografia, sulla struttura e sulle strategie
di produzione e di appropriazione delle immagini (Paolo Gioli, Thomas Ruff),
condotte a volte anche contemporaneamente a un impegno di carattere
professionale e figurativo completamente diverso (il fotogiornalismo per
Mario De Biasi o Margaret Bourke-White, la fotografia documentaria e di
architettura per Max Dupain, la fotografia di paesaggio per Vittore
Fossati), o con finalità concettuali e interessi analitici nuovi,
determinati dall’utilizzo delle più sofisticate tecnologie digitali e dalle
profonde mutazioni che queste hanno prodotto nella percezione e nella
coscienza contemporanea (Thomas Ruff).

Corpo
Daniela Palazzoli
L’attenzione spasmodica che è stata rivolta al nudo ci porta talvolta a
dimenticare che la rappresentazione fotografica dei corpi umani tocca molti
altri generi e situazioni.
In arte fin dall’antichità il corpo nudo sia muliebre sia maschile è stato
considerato la pietra di paragone della misura e della bellezza.
L’iconografia classica mutuata dall’arte greca che ritrae le persone a
figura intera continua anche in seguito. Con l’invenzione della fotografia
le riprese di nudo che ritraggono assieme volto e corpo, a causa dei tabù
legati al realismo specie in epoca vittoriana, cominciano a essere sentite
come oscene. Esse sono ritenute giustificabili per ragioni di studio
scientifico o “etnico”, oppure vengono trattate per ciò che sono: prodotti
pornografici (la cui timida impostazione a “luci rosse” oggi ci fa
sorridere) che vengono diffusi per scopi e nei circuiti commerciali. Fra le
varie forme di autocensura vi è quella di ritrarre i corpi senza i visi,
oppure velandoli, in modo da nascondere la sede della individualità
personale (Clergue). Parecchi autori prendono anche posizioni più esplicite
riguardo a ciò. Come Flor Garduño con la sua ragazza ricoperta di fiori, o
Von Wagenheim che la isola dietro una rete metallica, o Krims che
familiarizza il nudo attraverso gli ambienti e gli oggetti che circondano la
modella, oppure ancora Kertész che con la sua celebre Satiric Dancer
ironizza sulle varie pose usate per sedurre. Ciò non toglie che le varie e
ambivalenti forme dell’erotismo, come alibi e come pulsione autentica,
continuino ad attrarre molti fotografi da Vender, a Fontana, a Sieff, ad
Araki fino a Man Ray e ad Alvarez Bravo, con le connotazioni più varie. Un
capitolo a sé è quello di un corpo, non nudo, ma che si mette a nudo con un
desiderio di introspezione ed esplorazione del sé così esasperati e
raffinati da arrivare a evocare la propria scomparsa (Woodman).
Vi sono anche casi in cui il corpo diventa il campo in cui la deviazione
sessuale incontra la sua controparte: l’isolamento sociale (Carmi).
Un’iconografia inedita e prettamente fotografica è costituita da immagini
che ritraggono frammenti di corpi: piedi, occhi, dita intrecciate (Brandt),
e sfilate di gambe da ballerine di fila (Blumenfeld). Bizzarre sono anche le
deformazioni – allungamenti, angolazioni esagerate, prospettive esasperate
(Brandt, Shinoyama) – e le costrizioni che lo organizzano in composizioni
geometriche (Hosoe). Qualcuno interpreta questi exploit come il desiderio di
promuovere il ritorno del principio estetico sui richiami della carne, e di
fare prevalere l’estetica e le invenzioni creative sulle consuete forme
naturali.
Molte attività come il gioco, la vita sociale e persino gli orrori della
guerra si esprimono in fotografia attraverso il linguaggio dei corpi. Ma è
soprattutto nella danza e nello sport che essa riesce meglio a mettere a
frutto le sue doti creative e tecniche esaltando l’abilità, la dedizione e
il coraggio degli atleti nell’attimo di secondo in cui l’istantanea
immortala per sempre l’apice della loro esecuzione.

Ritratto
Gian Franco Ragno
Per Walter Benjamin, il ritratto fotografico supera l’epoca in cui “il volto
umano era circondato da un silenzio dentro cui lo sguardo riposava”, e si
pone quale genere imprescindibile davanti al mezzo in quanto “la rinuncia
all’uomo per la fotografia è tra tutte la più irrealizzabile”.
Il ritratto richiama a una complessità stratificata, a una tessitura di
significati che travalicano una semplice verosimiglianza – per la prima
volta nella storia – meccanicamente, scientificamente e quindi
ipoteticamente incapace di mentire. Punto d’incontro, di aspirazioni e
speranza, di ruoli e posizioni sociali che trascendono l’individuo per
approdare al concetto di identità, nonché di precarietà dell’esistenza
umana, in quanto, come ricorda Roland Barthes in La camera chiara, ogni
fotografia è legata a “ciò che è stato”, e quindi, indissolubilmente, alla
morte.
Nel Novecento, da un lato liberamente sperimentato dalle avanguardie,
dall’altro diffuso con la democratizzazione del mezzo fotografico, il
ritratto mantiene comunque uno spazio autoriale, come attestano numerosi
protagonisti: osserviamo Lotte Jacobi, con stile debitore alla Neue
Sachlichkeit, tratteggiare il clima culturale della Repubblica di Weimar,
oppure Arnold Newmann, maestro nel relazionare il soggetto con lo spazio,
fornire vere interpretazioni della figura d’artista.
Nell’impossibilità di tracciare in questa scheda una storia del ritratto,
ricordiamo comunque alcuni autori che hanno invece avuto l’ambizione, oltre
la sistematicità, di affrontare progetti a lungo termine: August Sander, il
quale applica per un trentennio un rigido protocollo alla ripresa, fissando
centralmente e parallelamente all’obiettivo la figura per poi, in seguito,
classificarlo secondo un preciso disegno, per professione e tipi sociali.
Nell’introduzione al volume Antlizt der Zeit, Alfred Döblin nota chiaramente
l’intento “scientifico” del fotografo di Colonia: il suo progetto di un
ritratto della Germania contemporanea, avversato dal regime nazista e in
parte distrutto dai bombardamenti nel 1944, lascerà un’eredità
imprescindibile nell’evoluzione della fotografia e dell’arte contemporanea,
dai coniugi Bernd e Hilla Becher a Rineke Dijkstra.
Walker Evans produsse per ventotto anni, prima di pubblicarli, ritratti
anonimi di individui incontrati nella metropolitana di New York: persone
comuni ma, nelle immagini, insolitamente autentiche, spogliate dalle
finzioni di messa in scena e posa. Il libro fu pubblicato con il titolo
tratto dal Vangelo di Matteo, Many are Called, e dedicato all’amico
scomparso James Agee.
È significativo che entrambi gli autori si richiamino al modello letterario
del naturalismo francese – Honoré de Balzac e Gustave Flaubert, quest’ultimo
molto amato da Evans – proprio in virtù del comune intento di rispettare con
oggettività il reale.
Arrivando ad anni più recenti, citiamo l’artista francese Christian
Boltanski, il quale a partire dagli anni settanta raccoglie fotografie
ritagliandole da giornali di cronaca nera e da album di famiglia, spesso
riferibili al periodo tra le due guerre, siano essi ufficiali tedeschi
oppure fotografie di classe delle scuole ebraiche, per poi utilizzarle in
ordine sparso, in uno scuro riquadro nero blandamente illuminato, come
materia delle sue installazioni: l’intento è quello di cancellare
drammaticamente i confini tra vittima e carnefice, tra verità e giustizia,
e, per quanto riguarda la fotografia e l’osservatore, tra immagine e
coscienza.

Arte e artisti
Gian Franco Ragno
Perlopiù indifferente alla condanna da parte di Baudelaire al ruolo di
“umile serva delle arti”, la fotografia, sin dalla sua comparsa, entra nello
stesso modo perentorio sia negli atelier sia nel resto della società
contemporanea.
Da materiale per il ritratto, anche postumo, a mera documentazione per
committenti e clienti, da repertorio di pose e forme a parte integrante
della progettazione artistica, la fotografia già nel corso dell’Ottocento
annoda i suoi rapporti con l’arte e gli artisti. Non, però, come mera
suggestione formale, nella direzione di fotografia verso l’arte, bensì come
strumento di lavoro autonomo e suggestiva modalità operativa, spesso
impiegata dagli artisti con interessante libertà e disinvoltura (si vedano i
casi, ad esempio, di Edgar Degas e Pierre Bonnard).
Di fatto, l’artista stesso viene, inoltre, celebrato e conosciuto attraverso
la fotografia, modalità che trova il suo vertice nei celebri ritratti di
Auguste Rodin eseguiti da Edward Steichen, mentre una vicinanza culturale,
se non proprio un’amicizia, fornisce in molti casi una minor rigidità nel
ritratto, come appare chiaramente nell’Aubrey Breadsley di Frederick Evans.
In questa cornice, nel secondo dopoguerra, assume una particolare rilevanza
Ugo Mulas che, dopo il teatro Piccolo di Strehler e il festival di Spoleto,
segue le Biennali di Venezia, rimanendo colpito dagli artisti americani new
dada e pop dell’epoca, tanto da seguirli e riprenderli nei loro loft con una
discrezione al limite del mimetismo. Risultato di tali frequentazioni, New
York. The New Art Scene è un testo visivo di grande fascino e valore
documentario, sin dalla copertina a doppia pagina, scattata durante
l’intervento della polizia a un happening alla Factory di Andy Wahrol.
Particolarmente felice è l’incontro di Mulas con la scultura, come
dimostrano le proficue collaborazioni con David Smith, Robert Morris e
Alexander Calder, Fausto Melotti, Arnaldo e Giò Pomodoro. Inoltre, Mulas, a
contatto con le neoavanguardie, mutua un metodo di lavoro, assimilando
l’accento dato alla progettualità dell’opera contemporanea, al processo
mentale che ne costituisce il fondamento: si prestano quindi a un
parallelismo e rispecchiamento le Attese di Lucio Fontana (1964), i famosi
“tagli” ritratti da Mulas, con le Verifiche dello stesso fotografo milanese,
riflessione ultima sull’atto fotografico.
A completamento della sezione, troviamo alcune fotografie di scena
dell’epoca d’oro del cinema italiano, dai fasti di Cinecittà a La Dolce
Vita, pellicola che vede altresì la nascita della figura del “paparazzo”,
nom de plume collettivo dei fotografi di cronaca mondana, neologismo
scaturito dalla fantasia di Federico Fellini. Occhio indiscreto e complice
del rapporto tra pubblico e divo, oggi, più in generale, rappresenta a pieno
titolo la continua invasione di campo tra pubblico e privato, tra società
dello spettacolo e quotidianità senza slanci, offuscata dal fascino della
“polvere di stelle”.

Paesaggio
Daniela Palazzoli
La prima foto della storia, 1827, realizzata dal francese Nicéphore Niépce
mostra una veduta dalla sua casa di Gras in Francia e rappresenta il primo
successo che la fotografia di paesaggio finirà per condividere con gli altri
grandi generi attinenti alla natura, alla condizione umana e al ritratto.
Con l’avanzare del secolo della prima urbanizzazione, la veduta romantica
della natura campestre e dei temi atmosferici mutuati dall’impressionismo si
sposta verso l’esplorazione delle città, a cominciare dal grande Eugène
Atget, che coglie magistralmente la Parigi dei boulevard, dei parchi, dei
quartieri e le stravaganti accumulazioni delle vetrine stracariche di merci.
La dote della foto di rendere i più minuti dettagli delle cose con superba
credibilità spinge molti fotografi a esplorare in vari modi la miniera di
nuovi oggetti e situazioni che scaturiscono dall’avanzare degli agglomerati
che parlano della nuova società industriale: non più solo i monumenti ma
l’animazione delle strade illuminate, i treni, le auto, i tram e le nuove
mode indossate dalla gente che passeggia sullo sfondo dell’apparizione dei
primi cartelloni pubblicitari.
Negli Stati Uniti i canti epici intonati alla natura primordiale e selvaggia
della costa Ovest dalla scuola californiana alla Edward Weston sono
affiancati nella costa Est dalle riprese che autori come Andreas Feininger e
tanti altri dedicano alla celebrazione dei panorami delle metropoli
moderniste con la loro selva di grattacieli. Egli immortala la penisola di
Manhattan come se fosse un succedersi di canyon artificiali oppure
preferisce sottolineare l’assembramento di situazioni diverse in un solo
colpo d’occhio: grattacieli, barche, e sbuffi di fumo tutti assieme a
indicare la presenza di macchine a vapore, industria, attività. Mentre la
foto di interno con tappezzeria di Diane Arbus conferma con ironia
l’ossessione americana per gli spazi aperti, Joel Meyerowitz fa un percorso
inverso, anomalo e affascinante. Prima abbandona il ritratto per il
paesaggio; poi adotta macchine di grande formato per realizzare riprese
spontanee, che ci invitano alla calma e alla contemplazione grazie a vedute
soffuse di armonia luminosa.
Uno dei protagonisti della scuola italiana del colore, Luigi Ghirri, da un
lato denuncia il degrado del paesaggio moderno nel kitsch, dall’altro quando
capita sa esaltare la bellezza con riprese poetiche e sognanti. In altre
occasioni la foto a colori incoraggia l’esaltazione degli eventi naturali:
Edgerton, Fontana; oppure il privato di un angolo: Chiaromonte; o anche la
poesia malinconica di una nave arrugginita giunta al suo capolinea:
Barbieri.
In generale, l’Europa, più che esaltare i grandi exploit tecnologici
realizzati sul territorio, ama sottolineare l’equilibrio e la civiltà
raggiunti grazie alla sua capacità di integrare natura, ambiente e società
umana. Mentre la Missione francese della D.A.T.A.R raccoglie attentamente il
proprio patrimonio architettonico, anche con Basilico, fotografi italiani
come Donzelli, Roiter, Giacomelli ci mostrano la bellezza segreta della
civiltà contadina, con l’essenzialità scarna dei suoi spazi vitali e la sua
capacità di creare un paesaggio arando la terra fino a trasformarla in un
disegno scarno e bruciato, senza mezzi toni, da cui nascerà il grano.

Reportage
Giovanni Fiorentino
La morte del toro di Lucien Clergue è un istante perfetto: l’intreccio
compiuto tra la morte e la vita, il rimando a un’idea forte della fotografia
che insegue, ferma e determina il tempo. Il corpo animale da una parte, la
massa nera e le banderillas conficcate sul dorso, la testa e le corna
riverse, il corpo del torero dall’altro, eretto, rivestito di un abito di
scaglie luminose, icasticamente scolpito dalla luce, immobile e celebrante.
La fotografia che espone la morte, celebra il rituale e la vita, il
vincitore e il vinto, l’ordinario e lo straordinario, con loro un occhio che
non sa dove fermarsi a sostare.
Non a caso Henri Cartier Bresson, maestro e modello per intere generazioni
di reporter, paragonerà Robert Capa a un grande torero che usa la luce come
un’arma ma è incapace di uccidere. E non a caso un film come La finestra sul
cortile (1954), che rappresenta tutta la vocazione del Novecento al
voyeurismo dello sguardo, s’ispira alle vicende reali di Endre Friedmann,
alias Robert Capa, definito da Stefan Lorant, direttore leggendario del
“Picture Post” inglese, “il più grande fotografo di guerra del mondo”.
Ebreo, ungherese di Budapest, è da Capa torero e da una delle sue ultime
fotografie realizzate in Indocina, poco prima di morire – proprio nel 1954 –
inciampando in una mina sulla strada che portava a Thai-Binh, che parte
idealmente la sezione Reportage della mostra. Il soldato punta lo sguardo
nel mirino del fucile, è un occhio testimone che uccide e contemporaneamente
muore generando immagini. Il lavoro di Capa, assieme alla fondazione
dell’agenzia fotografica Magnum nel 1946, rappresenta uno spartiacque per la
fotografia di guerra: siamo di fronte alla personificazione della seduzione
adrenalinica per l’evento madre e l’odio per la stessa idea del conflitto
armato. La sua fotografia buca il controllo e, supportata da Magnum, circola
sulle grandi riviste occidentali: immediata, sporca, istantanea, sviluppata
in fretta, distante dall’eleganza formale di Bresson, manifesta istanti
rubati, graffiati, malridotti, realizzati in condizioni disagiate, tra le
pallottole che fischiano. Il concetto è chiaro nelle parole del fotografo:
“se le tue immagini non sono abbastanza buone, vuol dire che non ti sei
avvicinato abbastanza”.
Generazioni di giornalisti fotografi che intendono fare la guerra contro la
guerra si inseriscono sulla sua scia: raccolgono l’utopia del fotoreporter
che deve mostrare e rivelare, investendo in intensità etica e in una stampa
moralmente impegnata. Un destino di morte fotografica insegue la storia del
reporter, come nel caso di Werner Bischof, una vita attraverso la guerra,
autore dello scatto sul fronte coreano, fotografo di Magnum e morto per un
incidente in Perù. Mano a mano l’occhio e l’ideologia del reporter sono
puntati decisamente intorno a una certa idea del Sud, si concentrano sui
fronti caldi collocati tra Asia e Africa. L’immagine della guerra del
Vietnam rovescia la posizione dell’opinione pubblica occidentale, è la prima
guerra mediatica che infrange sostanzialmente il controllo della censura e
coinvolge il pubblico con fotografia e televisione, i dettagli orrifici
della guerra sono quasi in presa diretta, il dolore dei civili, i soprusi
della potenza americana, la morte dei soldati statunitensi. Sono le immagini
che infrangono l’identità pubblica e il suo campo visivo, il campo egemonico
della rappresentazione stessa.
James Pickerell con il ritratto del soldato in Vietnam mostra i segni di una
tregua impossibile. L’occhio dell’inglese Don McCullin invece ferma i
soldati che corrono sulle macerie crollanti del Vietnam, pedina la guerra
per quarant’anni e tiene presente, consciamente e inconsciamente, un filo
della rappresentazione potente e visionaria del dolore: la forza del bianco
e nero da una parte, la pittura italiana di Masaccio, Michelangelo e
Caravaggio dall’altra. Fino ad approdare a una visione deliberatamente più
soggettiva, come quella di Raymond Depardon, a Beyrouth nel 1978: qui il
movimento dell’occhio si allinea con il fucile, le case e il mondo sono
destinati a crollare intorno alla corsa del soldato, che è fuga e
inseguimento a un tempo.
Il reportage affianca l’assolutamente irripetibile alla ripetizione
ordinaria, sovrappone la dimensione feriale all’appuntamento con la storia,
il rumore della vita al silenzio della morte, l’istante rubato alla forma
del sacro. L’esperienza fotogiornalistica sintetizza la fotografia degli
inconciliabili opposti, mette assieme l’improbabilità profetizzata da
Cartier Bresson del “momento decisivo” e l’istante anonimo, magari
americano, da recuperare all’immagine di Robert Frank o di William Klein, lo
scarto estetico dell’occhio e la vita che batte più forte del normale. Per
questo la collezione presentata in mostra si muove tra Oriente e Occidente,
attraversando il Novecento in lungo e in largo, recuperando istanti decisivi
e quotidianità della relazione tra uomo e natura. L’esotismo dei portatori
di grano di uno sguardo abituato agli artifici di scena e luce come Cecil
Beaton, la liricità di Eikoh Hosoe, il campo di grano di Federico Patellani
e la potenza incisiva di Mario Giacomelli con la Scanno fuori del tempo, i
fantasmi neri delle donne avvolte negli abiti, la buona terra o i pretini,
sagome che incidono lo spazio del rettangolo fotografico, o le distanti e
misteriose pescatrici di awabi fotografate da Fosco Maraini.
La vocazione alla rivelazione ci mostra punti di vista e prospettive
inedite. Caio Garruba, fotografo per “Il Mondo”, viaggiatore in Oriente,
sarà tra i primi a fotografare la Cina di Mao, e qui ci restituisce un
ritratto di Ho Chi Min. Mondi umani, sociali, antropologici, completamente
scomparsi e da raccontare – un reportage che in alcuni casi è un progetto
totale – sono offerti nella collezione esposta da un solo scatto che è
sintesi fotografica: le balere parigine di Robert Doisneau, la depressione
americana fotografata con il bianco e nero potente di Walker Evans per la
Farm Security Administration, o l’insolenza espressiva dei flash di Weegee,
dove l’arma del reporter è il lampo al magnesio che acceca e sottrae alla
vista, o ancora le inchieste visive scabrose tra i travestiti di Genova
realizzate da Lisetta Carmi, e di più, l’universo dolente fermato tra il
1935 e il 1939 da Roman Vishniac, quando dopo aver conosciuto il progetto di
sterminio nazista, decide di fotografare, con un apparecchio fotografico
nascosto, gli ebrei dell’Europa orientale. Uno degli scatti in collezione è
preso a Lodz, cappotti e scialli nascondono corpi e volti: “Non potevo
salvare la mia gente – scriverà Vishniac nel prezioso A vanished world –
solo il loro ricordo”.
Uno scarto temporale e geografico, e in qualche modo una continuità che è
dello specifico fotografico, siamo nella metropoli per eccellenza e sulla
scorta di Robert Frank: Candy Store è intitolata l’immagine newyorkese di
William Klein scelta per questa sezione: una parete piastrellata in bianco e
nero è pronta a esplodere attraverso gli occhi del bambino in primo piano.
Il filo si tesse, e rimanda all’improvvisazione rigorosa di Garry Winogrand,
alla stregua del jazz, all’emancipazione dei primi anni settanta, minigonne,
gambe lunghe, diagonali cadenti, la vita che scorre impetuosa e il suo
contenuto che sembra traboccare dalle forme, nella visione.

Still life
Silvia Paoli
Still life ovvero “natura morta”. Il termine italiano denuncia l’origine
antica del “genere”, legato allo sviluppo delle arti figurative e alle
stesse origini e caratteristiche della fotografia. Genere “umile”, fino al
Seicento, collocato agli infimi gradi e dotato di “non valore” nella
gerarchia dei generi dopo la pittura di storia, l’allegoria, il ritratto, il
paesaggio e la scena di genere. Dove un universo conchiuso di valori
connotava un mondo ancora intrinsecamente religioso, in seguito segnato
comunque da visioni onnicomprensive e totalizzanti, l’attenzione al
quotidiano, all’umile e al banale non poteva competere con la ben più
“educativa”, poiché densa di valori morali, pittura di storia o di
allegorie. Ma il sistema si ribalta quanto più emerge e si fa strada una
concezione del mondo laica insieme all’affermarsi della pittura “di realtà”.
Dalle nature morte nei dipinti a soggetto, piccoli frammenti del quotidiano
cesellati alla perfezione e inseriti a pieno titolo nella figurazione, già
tra Due e Trecento, si arriva alla natura morta come soggetto autonomo e
dotato di vita propria nella pittura cinque e seicentesca. Gli oggetti del
quotidiano e i naturalia acquistano dignità di soggetti del pensiero e
dell’agire artistico.
In fotografia, alle origini, dato che le caratteristiche del mezzo non
consentivano la ripresa del movimento per i lunghi tempi di posa, gli
oggetti furono i primi a essere ripresi e quindi la natura morta
costituisce, più per necessità che per scelta, uno dei primi “generi” della
storia della fotografia. Daguerre, Talbot, Bayard, disposero oggetti ad hoc,
realizzando i primi set, le prime nature morte fotografiche con fossili,
conchiglie, gessi, statue, bicchieri, porcellane, libri e oggetti d’uso
quotidiano. Tali rappresentazioni, in cui gli oggetti diventavano
protagonisti, mostrandosi per se stessi al di là della loro funzione,
mettevano in evidenza sin dagli inizi la stretta coincidenza tra il “genere”
della natura morta e i meccanismi stessi della rappresentazione fotografica.
Fu chiaro, infatti, come la fotografia mettesse a fuoco il frammento, il
dettaglio, ciò che sembrava marginale nello spazio e nel tempo, e che
invece, estratto, rivelava tutto il suo potere significante ed evocativo.
Già François Arago lo aveva intuito, parlando nel 1839 all’Académie de
France dell’invenzione di Daguerre, e, anni dopo, uno dei primi critici
della fotografia, Ernest Lacan, lo aveva precisato, sottolineando come la
fotografia decontestualizzasse gli oggetti e desse loro una nuova identità,
paragonandola in ciò al processo di svelamento tipico del fare archeologico.
Per tutta la seconda metà dell’Ottocento la fotografia di oggetti fu
largamente presente nei cataloghi illustrati delle grandi esposizioni
universali, nei cataloghi delle merci e dei prodotti industriali e in quelli
dei musei e delle grandi collezioni d’arte, senza dimenticare l’indagine
archeologica e le diverse branche delle scienze naturali.
Con la progressiva affermazione di una “modernità” anche in ambito
fotografico, sin dagli anni venti del Novecento, gli oggetti acquistano
valore in relazione ai diversi orientamenti sperimentali di ricerca sulla
visione. Come ben attesta l’estrema qualità e varietà degli esempi forniti
in questa sezione, lo still life muterà continuamente significati e
declinazioni a seconda degli ambiti artistici di riferimento, prestandosi
all’allusione, al gioco, all’ironia, all’evocazione simbolica. Nella
collezione trovano spazio i più importanti autori del Novecento: per gli
anni venti e trenta sono presenti Herbert Bayer, al quale rimanda tutta la
storia del Bauhaus, Albert Renger-Patzsch, legato alla nuova oggettività,
Edward Steichen che, col suo lavoro per le riviste, fu precursore
dell’osmosi tra ambienti fotografici orientati alla ricerca e al mondo della
moda, della grafica e della pubblicità. Lo still life si fece quindi strada
legandosi alle tendenze artistiche ma anche all’affermazione della società
dei consumi e dei media a livello planetario, con continui mutamenti e
slittamenti di significato che non sempre consentono di collocare con
chiarezza nel “genere” i diversi esiti. Le strade percorse conducono, così,
a immagini dai più diversi risvolti: simbolico/pittorialisti, come per
Achille Bologna, o comunque evocativi, anche con elementi naturali,
attraverso le ricerche formali di RengerPatzsch, Edward Weston, Ernst Haas e
poi il contemporaneo e ironico Cinquetti, mentre, a diverse riprese, è
evidente il ritorno e l’insistenza su motivi “antichi”, come i drappeggi con
piccola natura morta di Imogen Cunningham, per i quali il pensiero corre
agli studi di panneggi di Leonardo, e quelli di Minor White, dai risvolti
simbolici, o gli ortaggi di Groover, la frutta e la selvaggina di Cresci,
inquadrati in un interno “olandese” – ma con lampadine – i fiori di
Reves-Biro e di Metzner, gli studi ironici e giocosi di Callis, i limoni di
Garduño, con nudo. Elementi geometrici e giochi di luce e ombra percorrono
le immagini di Herbert List, Gino Bolognini, Ugo Mulas, Sam Haskins che,
come altri – Edmund Kesting, Franz Lazi, Siegfried Enkelmann – focalizza
l’attenzione sul design delle macchine e delle ottiche fotografiche. Vicino
ad ambiguità surrealiste è De Biasi, con la sua testa di bambola, fortemente
allusivi sono Jodice, con la maschera e la statua greca, e ancora Groover,
coi suoi oggetti di morandiana memoria. Capolavoro del genere è infine la
fotografia Cigarettes 123 di Irving Penn del 1972: qui il rifiuto, il
mozzicone di sigaretta, si trasforma in soggetto nobile, imponente e
monumentale, portando a compimento quel progressivo sovvertimento dei valori
attribuiti agli oggetti iniziato con la tradizione figurativa del Cinque e
Seicento.

Moda
Giovanni Fiorentino
Il bianco e il nero, lo splendore della luce e il buio del crepuscolo.
L’artificio e la natura, la scena da mostrare e il retroscena da velare. Il
bianco e il nero rappresentano le radici dell’immagine, una relazione
virtuale e biunivoca, costitutiva della realtà, come quella che – alle
origini della modernità occidentale – si crea tra moda e immagine
fotografica: fotografia che è moda, moda che si fa fotografia. L’etica della
bellezza trova le sue sponde ideali nella moda e nella fotografia,
conciliando flusso e interruzione del flusso, effimero e permanente,
transitorio ed eterno.
Fotografia e moda giocano costantemente sul crinale dei due poli,
violandolo, aprendo nuove frontiere alla sperimentazione dell’essere
sociale.
Bianco e nero, come scena e retroscena, con le loro continue interferenze,
consentono di rintracciare lungo il corso del Novecento, abiti, volti,
corpi, sfondi ora perfetti e levigati, talvolta raggrinziti e imperfetti, di
descrivere e analizzare un’incerta geografia del gusto che oscilla tra
bellezze splendenti e dettagli cruenti, che mescola banale e sublime, che
attraverso l’estasi della cultura simulacrale della tarda modernità ci
racconta molto più del nostro mondo, dei suoi drammi e delle sue bellezze.
Sono riviste come “Vogue” e “Harper’s Bazar” ad assumere presto centralità
nella storia effimera delle mode, e poi immagini che costruiscono tra le
pagine dei giornali tendenze in successione: la sensualità patinata del
tedesco Horst P. Horst si innesta sulla scia del barone George
Hoyningen-Huene, del quale è assistente e compagno di vita. Prima
disegnatore di scene e set fotografici, Horst nel 1935 diventerà fotografo
capo di “Vogue”. Usa le luci in maniera spettacolare e drammatica, la Lisa
Fonssagrives esibita in mostra è una scultura barocca che si traduce in
sensualità marmorea. Ecco la costruzione artificiale e lussuosa del sogno,
il trucco, il tableau vivant, una messa in scena ideale e sociale che va
oltre la transitorietà degli stili e si proietta – secondo una linea di
continuità – nel dopoguerra degli Stati Uniti, nel tutoraggio geniale
dell’art director di “Harper’s Bazaar” Alexey Brodovitch, figli suoi Irving
Penn e Richard Avedon, nella rielaborazione del sistema delle star con la
variante modella. La poliedricità di Penn recupera l’effetto flou del barone
De Meyer, i suoi scatti esaltano un’artificialità e un potere di sintesi che
recupera Munkácsi, ne sono prova la sospensione stilizzata dell’abito di
Issey Miyake e i colori dell’abito che interrompono il bianco della quinta
artificiale.
Mode e tendenze ci traspongono nel singolare mixer dell’Italian Style sul
Tevere, dove dolce vita, moda e cinema fanno i conti con gli obiettivi dei
paparazzi, fino alla Londra dei Beatles, di David Bailey e Mary Quant.
Norman Parkinson mette in scena un balletto vitale, la modella rivestita a
scacchi bianchi e neri è anima della swinging London degli anni sessanta,
Jean Shrimpton con il suo cappellino evoca la nascita di un sistema che si
fonda e costruisce la fotomodella, oltre che ricordare tanto l’Audrey
Hepburn di Colazione da Tiffany (1961). Citazione ed eleganza, Jeanloup
Sieff sembra partire invece da Man Ray e Ingres, lo sguardo interno guarda
l’esterno, l’eleganza dell’appartamento borghese, la statuarietà della
modella, la distanza nella scultura di luce, comunque guardano all’esterno
di una vita che scorre per strada e appare alla finestra.
Il vestito corporeizzato degli anni settanta tracima nell’edonismo patinato
degli anni ottanta, tra il glamour spinto all’eccesso e la messa in gioco
del corpo maschile. Il circuito pelle, abito, immagine diventa tensione
visiva e desiderio del lusso. Lo sguardo del fashion è specchio narcisistico
degli ultimi vent’anni, almeno quello più accessibile dell’erotismo patinato
esploso con “Vogue” e “Vanity Fair”, quello dello splendore sensuale dei
corpi di Bruce Weber, Herb Ritts, Steven Meisel, quando non tracima nel
glamour anche troppo palese. Negli scatti di Karl Lagerfeld, il caso di Les
balcons de la Vigie, si costruisce un’architettura fotografica del lusso. La
Naomi Campbell di Herb Ritts è un fiore o un insetto, una mantide di
carne-pelle che richiama direttamente Horst P. Horst.
Attraverso personalità singolari, e qui è necessario segnalare almeno
William Klein e Helmut Newton, si costruisce un percorso di sperimentazione
visiva contiguo al mondo dei consumi e della moda, ma dove progressivamente
il retroscena si fa parte integrante della scena come nei manichini e nelle
vetrine vagamente surrealisti – il rimando è ad Atget – che aprono questa
sezione. Lo sguardo bruciante di William Klein è un’incisione a freddo con
volute di fumo che riscaldano l’ambiente. Il provino di Klein è già un
tributo alla contaminazione del vissuto – i corpi nudi e piegati – e ricorda
i nudi intimi e privati di Degas. E poi naturalmente Newton, con il suo
voyeurismo che fa il verso alla donna robot di Metropolis e si nutre di un
immaginario fantascientifico di B-movie, che ci lascia inquietati a guardare
una donna che non è più una donna, un corpo post-umano dove l’unico abito è
la pelle e che si fa sensibilmente vicino agli androidi di Philip K. Dick.
Quando il retroscena si fa parte integrante della scena, siamo di fronte
all’incredibile possibilità di sperimentare e anticipare il mondo sociale in
immagine.
Sono percorsi che delineano aree della fotografia e della moda che
deliberatamente vanno contro il lusso patinato, grazie a nicchie e tribù dei
consumi che alimentano senza vincoli di sorta la sperimentazione creativa e
il legame con la strada. Il retroscena ci spinge sulla sponda di immagini
volutamente imperfette, spesso di un realismo eccedente. Jurgen Teller, Mark
Borthwick, Alexander Borodulin, Bob Carlos Clarke, Max Vadukul, migrano
dalle passerelle del lusso alla promiscuità della strada, i dettagli
edonistici si trasformano in gesti indomabili, ruvidi, in colori acidi, in
una concezione che trova nella riviste “ID” e “The Face”, evidentemente
ancora in “una” città come Londra, lo spazio per sperimentare un immaginario
visuale che spazia dal punk alla new wave, e comunque attinge a una
concezione che fa del minimalismo il verbo, e potrebbe iscriversi nella
cartografia del racconto breve costruita da Raymond Carver.
Si spogliano del trucco le donne più belle del mondo, si recupera l’impuro,
lo sporco, la cultura dei campionamenti e degli Scratch Dj, distruggono il
glamour, integrano stili di vita e immagini. Si tratta di esperienze che
abbandonano il voyeurismo temperato per giocare con immagini sconcertanti
che rifanno il verso a surrealismi e futurismi, citano esplicitamente cinema
e romanzo. Toscani usa le manette per unire il bianco e nero, Meyer si
lancia direttamente in uno scenario postumano, Vadukul accosta corpi al
limite dell’anoressia al filo spinato, Bob Carlos Clarke realizza un
ritratto livido, terribilmente ambiguo, Alexander Borodulin, porta la scena
per strada, la fotomodella è circondata dallo scorrere della vita e dagli
sguardi dei ragazzi di strada, Bert Stern, cita da bricoleur gli anni
settanta, ci proietta in ambienti che ricordano le astronavi di 2001 Odissea
nello spazio. La fine del millennio acuisce il desiderio dell’automa, si
trasfigura la marginalità sociale. Moda e fotografia lavorano tra
metamorfosi e trasfigurazioni, cicatrici e cuciture nella pelle, tra il
fumetto e Ballard, tra Hannibal Lekter e Frankestein. Il lavoro del
fotografo si avvicina alla ricerca genetica, all’etnografia, alla chirurgia
estetica, la fluidificazione dell’identità si traduce in patchwork di cose,
ambienti, persone, in un’ibridazione culturale che attraverso la moda
sperimenta e ipotizza il mondo.

Catalogo
Il catalogo, a cura di Marco Antonetto e Bruno Corà comprende saggi che
analizzano il contenuto della sezione Novecento della collezione presentata
in mostra; la storia della fotografia del ventesimo secolo; l’evoluzione
delle tecniche fotografiche; un excursus nell’editoria fotografica. Le
tavole, sono suddivise per tematiche e precedute da schede introduttive
dedicate al corpo, al ritratto, all’arte e agli artisti, al paesaggio, al
reportage, alla natura morta e alla moda.
In versione bilingue (italiano/inglese) ed edito da Silvana Editoriale, si
compone di 408 pagine ed è corredato da 303 immagini a colori. Il formato
del volume è 28 x 25 cm, il prezzo è di Fr. 53 / € 35.
Saggio introduttivo
Bruno Corà Photo20esimo. Maestri della fotografia del XX secolo
Saggi critici
Daniela Palazzoli
Photo20esimo e lo stimolo ad arricchire la nostra
personale, e ideale, collezione di fotografie “per sempre”
Heinz Liesbrock
Documentazione soggettiva.
Fotografia e realtà nel XX secolo
Marco Antonetto
Evoluzione delle tecniche fotografiche
Gian Franco Ragno
Tra immagine e racconto.
Appunti di un’editoria fotografica
Schede
Maria Francesca Bonetti - Astrazione
Daniela Palazzoli - Corpo
Gian Franco Ragno - Il ritratto
Gian Franco Ragno - Arte e artisti
Daniela Palazzoli - Paesaggio
Giovanni Fiorentino - Reportage
Silvia Paoli - Still life
Giovanni Fiorentino - Moda

Il Polo Culturale e il
suo futuro Centro
Il «Polo Culturale» identifica una rete di soggetti istituzionali che,
all’insegna di un indirizzo culturale rispondente a un progetto condiviso,
agiscono in modo coordinato. Una forza propulsiva che è stata immaginata,
sin dal suo costituirsi, per esprimere e valorizzare tutto il territorio.
Immaginiamolo pure come una mano le cui cinque dita - la musica, il teatro,
l'arte moderna e contemporanea, la storia e le altre culture - si muovono di
concerto e con un fine comune. Bisogna, dunque, con chiarezza sin d'ora
distinguere fra il «Polo culturale» e il grande edificio del «Centro
culturale» che si inaugurerà nel 2013. Il «Polo» determinerà l’identità e
l’azione futura di quel «Centro» di grande importanza e complessità in un
clima di stimolanti relazioni internazionali.
La decisione di edificare nello spazio adiacente all'ex Albergo Palace il
«Centro culturale» è l’esito di un processo che, negli anni, ha visto il
Comune di Lugano promuovere in modo crescente la cultura, per innalzare la
qualità della vita del cittadino e la realtà urbana, a un livello nazionale
e internazionale. Il «Centro» sarà, dunque, il contenitore di eccellenza
delle attività che riguardano la musica, le arti visive e sceniche.
Nel «Centro» confluiranno: il Museo d’Arte Moderna oramai diventato Museo
d’Arte, la Collezione permanente e altri importanti fondi che costituiscono
il patrimonio artistico della Città. A rafforzare ulteriormente la nuova
realtà museale sarà la presenza di una sezione del Museo Cantonale d'Arte,
istituzione con la quale saranno sviluppati progetti espositivi di
particolare rilievo.
Inoltre, il «Centro» sarà la sede di un grande teatro, in grado di offrire
nelle migliori condizioni, per gli artisti e per il pubblico, una stagione
organica di concerti e di proposte teatrali e anche liriche di valore nonché
la danza, che costituisce un settore in costante crescita creativa.
Gli altri soggetti principali che contribuiranno a rendere il «Polo
Culturale» un vero e proprio laboratorio interdisciplinare, aperto alla più
ampia collaborazione in rete, sono: l’Archivio Storico, il Museo delle
Culture e Villa Ciani, sede di esposizioni a carattere storico-artistiche
nonché di attività espositive e di ricerca, in sinergia con le istituzioni
cantonali e federali.
Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale

Come raggiungere Lugano
IN TRENO
Da Milano ci sono treni per Lugano (direzione Zurigo, Basilea, Stoccarda,
Dortmund) ogni ora, ai minuti 25.
Dalla Svizzera ogni ora treni diretti per Lugano, informazioni su www.ffs.ch
Per raggiungere il Museo d'Arte dalla stazione ferroviaria di Lugano è
possibile usufruire del trasporto in funicolare (CHF. 1.10 la corsa) e poi
proseguire con il bus numero 1 (CHF. 1.60) e scendere alla fermata
Malpensata.
IN AUTO
Da Milano: autostrada A9 dei Laghi, direzione Como-Chiasso oppure autostrada
A8 direzione Varese-Stabio. Uscita consigliata Lugano-Sud.
Si ricorda che per percorrere le autostrade svizzere è necessario essere
muniti di vignetta autostradale da applicare sul vetro dell’auto (costo CHF.
40.-), che deve essere acquistata alla dogana.
Senza vignetta è obbligatorio uscire dall’autostrada a Como Monte Olimpino
(seconda uscita di Como), passare la dogana a Ponte Chiasso (2 Km
dall’uscita autostradale) e quindi percorrere la Strada Cantonale per
Lugano.
Nei pressi del Museo d'Arte, situato sul lungolago, è disponibile l'autosilo
Central Park (costo di c.a. CHF. 2.- all'ora). La cassa è automatica ed è
possibile pagare unicamente in Franchi svizzeri.
IN AEREO
Da Roma, Londra, Parigi, Berna e Ginevra, tutti i giorni voli diretti con
Darwin Airline su Lugano Airport.
Servizio di bus navetta in corrispondenza con i voli per il centro città.
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